“Ho fatto tanto / per fare una parola /
quale oggetto / per praticare il mondo: // Io. Sono. La terapia”. Questi versi
possono farci da chiave, una delle tante possibili, per muoverci con
delicatezza nel territorio poetico di Margherita Rimi. L’autoantologia Era
farsi coglie l’occasione per trarre un primo bilancio della scrittura
dell’autrice. Si tratta di testi dove parola e cura, terapia,
camminano spesso insieme, sodali, compagne di un viaggio personale fatto di
memorie (olfattive: “l’odore dell’arance”, “l’odore di mandarino”, pagine
82-83) affettive e professionali che si compenetrano a vicenda (la Rimi è
neuropsichiatra infantile). Daniela Marcheschi, nella prefazione, con mirabile
chiarezza e precisione ermeneutica scrive: “Il dettato della Rimi è nitido nel
suo articolarsi per anafore, iterazioni e parallelismi di ogni genere, ma anche
per montaggi fra giustapposizioni e incroci analogici: «E – sono un libro
chiuso / E – rimango chiuso / i grandi hanno grandissimo da fare» (In salvo).
La sua poesia conquista il lettore, perché l’Autrice ha la rara capacità di
guardare e vedere il mondo dagli occhi stessi dei bambini, un mondo a volte
feroce e cinico, di maltrattamenti e di paura, di ferite e di malattia. Eppure
dei bambini violati o disabili la Rimi sa cogliere con essenzialità anche tutta
la purezza e la forza: la bellezza”. Nel senso di un vero e proprio “giuramento
/ alla bellezza” (pag. 51), in questo personale inventario poetico, vanno forse
lette le numerose dediche e citazioni presenti nel libro, in quel
dialogo-scavo, interrogazione in linea col passato e le istanze letterarie
universali che, sempre la Marcheschi, indica come ineludibile e necessario
nella letteratura contemporanea. L’idea di movimento è tema trainante in
numerosi testi, ricorrono infatti treni, rotaie, stazioni, case cantoniere,
luoghi di passaggio e mezzi di locomozione. La pendolarità è sinonimo di
precarietà e incertezza, l’immagine della circolarità dell’agire serve a
parlare del trauma di molti bambini: “Ma i bambini sanno aspettare / senza le
madri, le madri / tra il parapetto e il cielo / gambe su gambe su ruote
spuntate” (pag.30). Drammi di giovanissime vite umane costrette a precoci
meccanismi di difesa nichilisti: “La bambina uccide la bambina” (pag.33), “si
difende la ferita: // il grafico dei «non lo so» (pag.26), che corrono dietro a
infanzie adulte distratte nel crescere (pag.27). Una poesia a singulti,
spezzata, a tratti «destrutturata», come il linguaggio “nudo” infantile,
spoglio di astuzie esperienziali, di chi guarda “con gli occhi confusi / sono
troppe le domande” (pag.20). Qui, dove “Tutto è: a capo di / qualcosa che
manca” (pag.150), “Troppe parole / abusano di me” (pag.147), “La metafora mette
assieme cose / dove non le trova” (pag,167), si perdono le tracce del proprio
essere, si cade nella notte psichica (“E non puoi più dirmi che c’è un’altra
via. Che c’è / un’altra vita. / Non ho più le prove / e del catenaccio non c’è
più la chiave”, La grata), nei mali del soma. Così è “il buio che
incoraggia il buio” (pag.76), “Le sere / hanno una prigione” (pag.168), “La
notte complica la solitudine” (pag.83), mentre “i bambini imitano i sogni”
(pag.81). L’immagine della notte, la luna, l’oscurità, appartiene a questa
scrittura diretta e stratificata, che attinge appunto alle fonti più chiare e
simboliche, senza cadere mai in forzature estetizzanti. Una poesia senza alcun
manierismo, che introduce anche elementi del lessico clinico con essenzialità
adamantina. Il tatto e l’empatia ( “È pure mio / tutto lo spavento tuo / di
esistere”, pag.54), uniti a una profonda sensibilità nei confronti dell’Altro
(che si riflette come in uno specchio sul linguaggio), permettono ai
testi di Margherita Rimi lo smarcamento dai luoghi comuni, dalla retorica, così
frequenti soprattutto quando si affrontano, sia in arte che sul versante
scientifico, discorsi di natura pedagogica in senso lato. La migliore poesia è
un organismo sempre in grado di riprodursi, dove anche la perentorietà di certe
asserzioni (“È sbandamento il tempo”, pag.61), non genera sabbie mobili
cognitive, cortocircuiti dialettici, secche immaginative, soprattutto quando a
darle linfa c’è l’utilizzo dell’ironia (“Per l’immortalità / ci pensa l’anima /
alle plastiche carnali / la metafisica del soma”, pag.60). La Rimi affronta di
petto l’esperienza dolorosa del tempo che scorre (come nella splendida poesia
dedicata alla sorella, pag.53), la fallibilità della parola (“questa cura
storta a questo tempo in piena”, pag.52), cercando di andare “più in là / di
questa inutile sostanza / di questo intento a non finire”. Al “Secolo che ride”
oppone tutta la consapevolezza sicula (“Non dureremo tanto”), di chi è nato da
questa madre Pirandelliana, di lucertole e gechi, dove
ancora “Una storia deve venire” e sarà Da intitolare chiamando a
raccolta le forze di tutti, la responsabilità adulta, perché “Come finisce / se
non continui tu”? (Lunarionuovo).
Luigi Carotenuto
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