A New York nel 1932 la pausa pranzo degli operai che
partecipavano alla costruzione dell’RCA
(il principale edificio del Rockefeller
Center, oggi proprietà e sede di General
Electric), si faceva standosene tranquillamente seduti su una trave.
Finzione o realtà? Quello che conta sono gli undici operai, undici storie,
appese ad un cavo. In apparenza la stessa disinvoltura dei loro concittadini,
che invece, alla stessa ora, occupavano la sedia di un affollatissimo fast-food. Aprivano il loro porta-pranzo,
ritrovando nei pochi grammi del loro panino, un pezzo di casa. Nella loro
apparente normalità, nei loro sguardi distesi, nelle loro chiacchiere, se si
scruta con attenzione, traspare l’inquietudine e il significato del loro gesto.
Vite appese ad un cavo per non rimanere appese alla disperazione. La
disperazione di chi è costretto ad accettare le condizioni precarie di quel
lavoro che non nobilita l’uomo ma solo gli interessi di chi glielo offre. La dignità,
e al contempo disperazione, di chi sfida le regole della natura per cercare di
migliorare le regole di quella società civile che non conosce rispetto. Non è
difficile intuire i pensieri di questi uomini. La loro protesta è portatrice di
un messaggio forte e urlato in silenzio: il loro grido chiede condizioni di
lavoro in sicurezza e salari adeguati. Siamo proprio sicuri che si tratti di un
mezzogiorno di quasi cento anni fa? Siamo proprio sicuri di trovarci a New
York? Forse le distanze sono più brevi di quanto possa sembrare e la “Grande
Mela” è proprio accanto a noi, così come il tempo non scorre poi così veloce
come pare, oppure la macchina del tempo è già stata scoperta e invece di vivere
nel nuovo millennio, ancora oggi, ogni giorno, riviviamo quegli attimi di quel pranzo.
Purtroppo, infatti, siamo ancora appesi a quella trave!
Roberta Musumeci
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